sabato 28 gennaio 2017

Il pensiero di don Pietro - domenica 29 gennaio 2017

LA STRADA DELLA FELICITA’ (Mt. 5,1-12a)

Solitamente pensiamo alla felicità come ad una realtà da raggiungere nella nostra vita terrena; in questo senso possiamo dire che una persona può essere resa, apparentemente e provvisoriamente, felice anche in forme improprie: solleticando la sua vanità, assecondando le sue voglie, stimolando il suo apparato sensoria- le… In questi modi potrà - forse - essere felice, ma certamente non beato. In questo senso anche la sequela di Gesù può essere distorta e fraintesa: molte forme di religiosità infantile, immatura, puramente emozionale o sensazionalistica vanno in questa direzione. E’ la ricerca egocentrica di un “Dio tappabuchi”, è uno stato narcisistico di autogratificazione che ci fa perdere il senso profondo della sequela. La vera felicità, quella che rende davvero beati, è ricerca, esodo, viaggio, percorso, ascolto, uscita da se stessi per mettersi docilmente e tenacemente sulle tracce dell’Altro. Perciò possiamo dire che la vita umana tende alla beatitudine, ma deve accettare una felicità storicamente solo perfettibile. Se non riusciamo ad accettare il senso del limite, a fare i conti con l’alterità, ad abitare la distanza, a riconoscere Dio come il “Totalmente Altro”, continueremo a scambiare la felicità con un miraggio a portata di mano, lasciandoci sedurre dal mito dell’istantaneità. La vera felicità non è una forma di autorealizzazione, perché lo stato di appagamento sarebbe circoscritto solo al mio orizzonte esistenziale, ai miei bisogni, alle mie attese, ai miei sogni… La vera felicità può provenire solo dall’al-to: è quella che ci raggiunge come dono gratuito e infinitamente misericordioso di Dio. Questa felicità noi la chiamiamo “beatitudine”. Nel contesto della nostra società è facile confondere i piaceri della vita con la vera felicità e la felicità con la beatitudine. Tanto è vero che le beatitudini di Gesù indicano paradossalmente delle situazioni infelici della vita dell’uomo che, secondo la mentalità di questo mondo, sono considerate delle sventure. Ma l’essere beati non sta nella condizione di sofferenza presente nella beatitudine, bensì nell’affidarsi al Signore: la sofferenza o l’impegno morale citato dalla beatitudine diventa il modo concreto di vivere l’incontro con il Signore affidandosi totalmente a Lui. In altre parole, il cristiano non è beato perché soffre, ma perché vive la sofferenza e tutte le altre situazioni che richiedono un grande impegno, affidandosi totalmente a Gesù. La beatitudine, che è la pienezza della felicità, sta nella relazione con Gesù.        

1 commento:

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