LA STRADA DELLA FELICITA’ (Mt. 5,1-12a)
Solitamente
pensiamo alla felicità come ad una realtà da raggiungere nella nostra vita
terrena; in questo senso possiamo dire che una persona può essere resa,
apparentemente e provvisoriamente, felice anche in forme improprie:
solleticando la sua vanità, assecondando le sue voglie, stimolando il suo
apparato sensoria- le… In questi modi potrà - forse - essere felice, ma
certamente non beato. In questo senso anche la sequela di Gesù può essere
distorta e fraintesa: molte forme di religiosità infantile, immatura, puramente
emozionale o sensazionalistica vanno in questa direzione. E’ la ricerca
egocentrica di un “Dio tappabuchi”, è
uno stato narcisistico di autogratificazione che ci fa perdere il senso
profondo della sequela. La vera felicità, quella che rende davvero beati, è
ricerca, esodo, viaggio, percorso, ascolto, uscita da se stessi per mettersi
docilmente e tenacemente sulle tracce dell’Altro. Perciò possiamo dire che la
vita umana tende alla beatitudine, ma deve accettare una felicità storicamente
solo perfettibile. Se non riusciamo ad accettare il senso del limite, a fare i
conti con l’alterità, ad abitare la distanza, a riconoscere Dio come il “Totalmente Altro”, continueremo a
scambiare la felicità con un miraggio a portata di mano, lasciandoci sedurre
dal mito dell’istantaneità. La vera felicità non è una forma di
autorealizzazione, perché lo stato di appagamento sarebbe circoscritto solo al
mio orizzonte esistenziale, ai miei bisogni, alle mie attese, ai miei sogni… La
vera felicità può provenire solo dall’al-to: è quella che ci raggiunge come
dono gratuito e infinitamente misericordioso di Dio. Questa felicità noi la
chiamiamo “beatitudine”. Nel contesto
della nostra società è facile confondere i piaceri della vita con la vera
felicità e la felicità con la beatitudine. Tanto è vero che le beatitudini di
Gesù indicano paradossalmente delle situazioni infelici della vita dell’uomo
che, secondo la mentalità di questo mondo, sono considerate delle sventure. Ma l’essere
beati non sta nella condizione di sofferenza presente nella beatitudine, bensì
nell’affidarsi al Signore: la sofferenza o l’impegno morale citato dalla
beatitudine diventa il modo concreto di vivere l’incontro con il Signore
affidandosi totalmente a Lui. In altre parole, il cristiano non è beato perché
soffre, ma perché vive la sofferenza e tutte le altre situazioni che richiedono
un grande impegno, affidandosi totalmente a Gesù. La beatitudine, che è la
pienezza della felicità, sta nella relazione con Gesù.
Ciao Signore e signori!
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